Ci troviamo nel pieno della settimana simbolo del consumismo di massa: il Black Friday. Un periodo in cui si possono acquistare prodotti di ogni tipo con sconti che vanno dal 26% al 50% sul prezzo ufficiale. Questa strategia di marketing affonda le sue radici negli anni ’20, quando i Grandi Magazzini Macy’s di New York idearono una trovata geniale per incentivare gli acquisti.
Il fenomeno ha raggiunto il suo apice negli anni ’80, affermandosi come evento nazionale negli Stati Uniti, il giorno successivo al Thanksgiving.
Oggi, grazie a internet e al colosso dell'e-commerce Amazon, il Black Friday è diventato un fenomeno globale. Le aziende adottano strategie di comunicazione differenti, ma l'obiettivo rimane lo stesso: incrementare gli introiti in un periodo di tempo limitato, cercando di svuotale al contempo gli stock di merce invenduta.
Tra le categorie merceologiche più vendute svetta l'abbigliamento, alimentando il fenomeno del Fast Fashion, la moda ultra-veloce che negli ultimi decenni ha rivoluzionato il modo in cui ci vestiamo. Marchi come H&M, Zara, Shein e Benetton, già noti per i prezzi accessibili, offrono ulteriori ribassi, rendendo i loro prodotti ancora più convenienti. Questo boom delle vendite mobilita enormi risorse produttive e logistiche: si stima che ogni anno vengano prodotti tra 80 e 100 miliardi di capi d’abbigliamento. Considerando che la popolazione mondiale conta circa 8-9 miliardi di persone, la quantità di capi prodotti supera di dieci volte il fabbisogno globale. Ciò solleva interrogativi sulla gestione di queste enormi eccedenze e sul loro impatto.
La logica del Fast Fashion ha causato danni irreversibili sul clima, sulla società, sulla politica e sull’economia. Questo modello produttivo si basa sulla capacità delle aziende di immettere sul mercato nuovi prodotti in tempi rapidissimi, mantenendoli disponibili per poche settimane. In questo modo, soddisfa l’insaziabile consumismo della nostra epoca, ormai fuori controllo.
Ma quali sono le conseguenze di questo sistema?
Ogni anno vengono prodotti circa 100 miliardi di capi d’abbigliamento, di cui il 25% rimane invenduto. Questo surplus genera un'enorme quantità di rifiuti: si stima che ogni secondo un camion carico di vestiti venga inviato in discarica. Le principali mete di questi scarti sono il deserto dell’Atacama, in Cile, e la periferia di Accra, in Ghana.
Due modelle durante l'Atacama Fashion Week | Foto Mauricio Nahas
Nel deserto cileno, senza infrastrutture per lo smaltimento o il riciclo, 39.000 tonnellate di abiti vengono abbandonate ogni anno sotto il sole cocente. Ad Accra, invece, ogni settimana arrivano 15 milioni di capi, creando montagne di rifiuti tra cui pascolano animali e vivono famiglie in condizioni di estrema povertà. Gli abitanti del luogo chiamano questi scarti “i vestiti dell’uomo bianco morto”, perché ritengono impensabile disfarsi di tanti abiti senza una motivazione drastica.
Uomini che raccolgono vestiti dalle montagne di vestiti abbandonati, Accra Ghana, Fonte: www.Africa.it
Questo è solo uno dei problemi ecologici legati al Fast Fashion. Anche il ciclo produttivo ha un impatto devastante. La coltivazione del cotone, ad esempio, richiede grandi quantità di acqua e terreno, mentre la produzione di tessuti sintetici utilizza agenti chimici inquinanti. Secondo un’analisi del Parlamento Europeo, la produzione globale di fibre tessili è passata da 58 milioni di tonnellate nel 2000 a 109 milioni nel 2022, con una previsione di crescita fino a 145 milioni di tonnellate entro il 2030. La maggior parte di questi abiti finirà inevitabilmente in discariche a cielo aperto.
A questo si aggiungono le condizioni di lavoro nei paesi produttori. Adulti e bambini lavorano per salari miseri e senza tutele, spesso in ambienti pericolosi e privi di igiene. Molti bambini sono costretti a lasciare la scuola per sostenere economicamente la famiglia, compromettendo il loro futuro.
Di fronte a una produzione in continua espansione, quali soluzioni possiamo adottare?
Due esperte italiane, Luisa Ciuni e Marina Spadafora, affrontano la questione nel loro libro “La rivoluzione parte dal tuo armadio”. Il testo sottolinea come la moda sia il terzo settore più inquinante al mondo, analizzando le conseguenze del low cost e dello spreco. Marina Spadafora, in un’intervista su “ITA Magazine”, ha raccontato di una proposta di legge presentata al Parlamento Europeo per obbligare le aziende a rendere trasparente la filiera produttiva attraverso etichette dettagliate, sensibilizzando al contempo i consumatori.
Coast of Jamestown in Accra, Ghana
Le multinazionali, però, raramente si preoccupano di tutelare i lavoratori, i consumatori o il pianeta. Molti capi di bassa qualità contengono tracce di piombo, una sostanza tossica per la pelle. Diventa pertanto fondamentale modificare le nostre abitudini: informiamoci sui marchi da cui acquistiamo e scegliamo consapevolmente.
Strumenti come le app Good On You e Renoon possono aiutarci. Basta inserire il nome del brand per ottenere informazioni sulle sue politiche ambientali e sociali. Cambiare è possibile, ma dobbiamo iniziare dalle nostre abitudini, o come dice Marina Spadafora, "dal nostro armadio".
www.wiji.surf
Quest’anno WIJI non parteciperà al Black Friday. Crediamo in un modo diverso di fare e vivere la moda, rispettando l’ambiente e impegnandoci ogni giorno verso una produzione più responsabile. La nostra missione è sensibilizzare la community sull'importanza di scegliere prodotti autentici, responsabili e realizzati con cura per l’ambiente.
I capi WIJI sono progettati per durare nel tempo e rispettano valori di sostenibilità: utilizziamo cotone certificato 100% bio GOTS, poliestere riciclato e materiali innovativi come il Modal®. Produciamo solo ciò che serve, evitando sprechi e sovrapproduzione, per ridurre l’impatto ambientale.
Invitiamo tutta la nostra community a vivere il Black Friday in modo consapevole, scegliendo brand che rispettino l’ambiente e si impegnino per la salvaguardia degli oceani.
Il cambiamento parte da ciascuno di noi.
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